Relazione tenuta dal dott. Roberto Tanisi all’evento formativo dell’1.6.2012
Vi mettiamo a disposizione il testo della relazione tenuta all’evento formativo, organizzato da questa Camera Forense lo scorso 1.6.2012 sulla formazione della prova nel processo penale ed i poteri del Giudice, fattoci gentilmente pervenire dal relatore dott. Roberto Tanisi.
I poteri del Giudice nella formazione della prova
Casarano, 1.6.12
Ringraziamenti di rito
La notevole ampiezza del tema proposto mi induce ad affrontare solo alcune delle problematiche, viste, ovviamente, dalla parte del Giudice del dibattimento.
1- Sull’art. 507 c.p.p. e dintorni
Ogni società, per esistere, ha bisogno di regole. Le società-Stato hanno poi, nel loro Ordinamento, un sistema di norme volte a regolare i rapporti sociali, al cui interno figurano quelle che delineano i meccanismi finalizzati al controllo della criminalità.
I modi di tale controllo sono i più diversi, perché dipendono dal tempo, dallo spazio, dai rapporti e dalle società prese in considerazione. Il processo penale, che è lo strumento attraverso il quale si esercita tale controllo, può, dunque, assumere schemi e forme diverse perché diversi sono i modelli di appartenenza e diverse sono le estrinsecazioni pratiche. Così, un sistema processual-penalistico può, ad esempio, avere come scopo principale quello della ricerca della verità (così era espressamente scritto nel nostro codice del 1930, all’art. 299, comma 1°: “Il Giudice istruttore ha obbligo di compiere prontamente tutti e soltanto quegli atti che in base egli elementi raccolti o allo svolgimento dell’istruzione appaiono necessari all’accertamento della verità…”), un altro può invece ritenere rilevante il “modo” di risoluzione della lite, mettendo in secondo piano l’aspirazione ad una ricostruzione veritiera dei fatti. I sistemi di Common Law, per esempio, si dimostrano più propensi ad assicurare quello che si definisce “Fair Trial”, ossia regole del gioco uguali per le parti e una procedura garante del loro rigoroso rispetto.
Anche il processo italiano vigente, pur in mancanza di una disposizione come quella del codice Rocco, non è dubitabile abbia come scopo quello di ricercare ed evidenziare la verità dei fatti oggetto della causa, nel rispetto dei principi e leggi costituzionali, della normativa ordinaria e delle regole procedurali: ne fanno fede ripetute pronunce della Suprema Corte e della Corte Costituzionale (cito, fra tutte la nota Sentenza Martin – Cass. 21.11.92, n. 17, sui poteri del Giudice ai sensi dell’art. 507 c.p.p.).
In tale sentenza testualmente si legge: “Si è detto che a riconoscere al giudice un potere siffatto – cioè quello di ammettere nuove prove ex art. 507 c.p.p.: n.d.r. – contrasterebbe con il carattere del nuovo codice di rito, posto che questo non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale <<un esito vale l’altro, purchè correttamente ottenuto>>. Però, com’è stato autorevolmente affermato, non è questo il modello italiano. Le linee portanti del nuovo sistema processuale non possono essere individuate in modo preconcetto ma vanno desunte dalle norme e in primo luogo dalla delega, la quale nell’art. 2 ha stabilito che i caratteri del sistema accusatorio avrebbero dovuto trovare attuazione da parte del Legislatore delegato secondo i principi e i criteri enunciati nelle numerose direttive dello stesso articolo. Queste disegnano un sistema tutt’altro che indifferente rispetto al contenuto della decisione e non è privo di significato che proprio nella direttiva 73 (che concerne tra l’altro i poteri probatori del Giudice del dibattimento) si parli di <<ricerca della verità>>. Del resto – si legge ancora in questa storica sentenza – anche negli ordinamenti di common law, considerati per vari aspetti il modello del nuovo sistema processuale, la concezione secondo cui il processo penale è esclusivamente un <<affare delle parti>> ha oggi ceduto il passo all’altra secondo cui <<la collettività non può dirsi indifferente rispetto alla definizione del processo secondo giustizia, sicchè il giudice non può restare inerte allorchè l’inattività o l’inoperatività di una delle parti minacci la possibilità di arrivare a tale definizione>>…”).
Dunque, se è vero che i modelli giuridici del processo penale sono sostanzialmente due, quello inquisitorio e quello accusatorio, è anche vero che essi solo teoricamente rimangono distinti e speculari, posto che, nella realtà non esiste un processo accusatorio puro o un processo inquisitorio puro, ma solo processi misti. La ricerca della verità è, difatti, un’aspirazione morale che coinvolge qualsiasi organo giudicante, sia che appartenga ad un sistema accusatorio, sia ad uno inquisitorio; diverse sono, però, le regole che disciplinano gli strumenti, i poteri e la posizione degli organi e delle parti nel processo e, più in generale, il processo stesso. Qualcuno potrebbe obiettare che la sentenza richiamata è piuttosto risalente nel tempo e che quando venne scritta risentiva, probabilmente, della cultura, tendenzialmente inquisitoria, di chi era – per così dire – “cresciuto” col vecchio codice. Così, invece, non è, dal momento che l’analisi della successiva giurisprudenza di legittimità dimostra come gli orientamenti effettivamente dissenzienti rispetto a quello delle SS.UU. siano assolutamente episodici: per quanto a me consta un paio di sentenze, una del 2004 (Cass. sez. 5^, 1 dicembre 2004 n. 15631, Canzi, rv. 232156) ed una, molto più risalente del 1995 (Cass. 30 gennaio 1995, Rizzo, rv. 201939). Il che vale a confermare che – piaccia o non piaccia – il nostro codice, pur richiamandosi ad un modello processuale che fa riferimento al cd. “processo di parti”, non ha inteso accogliere integralmente il principio dispositivo che pur caratterizza questo tipo di processo; principio che non può dirsi neppure integralmente accolto nel processo civile – tipico processo di parti – nel quale il giudice è dotato (art. 115 c.p.c.) di ampi poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure nei soli casi previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi (interrogatorio non formale delle parti: art. 117; ispezione; CTU, testi de relato, ecc.).
“Coerentemente quindi l’art. 507 c.p.p. conferma come questa opzione (per il principio dispositivo) nel processo penale non sia stata piena e incondizionata” (così si legge in una sentenza più recente: Cass. 17.10.06, n. 42181). In terminis, la recente Cass. 12.10.11, n. 43018.
Del resto, anche nel sistema nordamericano, a conferma della compatibilità del sistema accusatorio con le deroghe al principio dispositivo, è stata introdotta (non molti anni fa) un’innovazione legislativa che ha consentito la nomina d’ufficio dell’esperto indipendente (expert witness) da parte del giudice, che costituisce evidente deroga del principio dispositivo (che, peraltro, già la giurisprudenza civile aveva affermato).
Né può sostenersi – a mio parere – che il meccanismo processuale delineato dall’art. 507 c.p.p. costituisca una sorta di residuato dell’ancien regime, individui una specie di “Giudice istruttore” vecchia maniera, posto che mentre tale figura costituiva, in realtà, un organo d’accusa mascherato da giudice terzo, tale non è, invece, il Giudice del dibattimento che faccia ricorso al disposto di cui all’art. 507 c.p.p., diverso essendo l’ambito di operatività di tale disposizione e, soprattutto, diverso essendone lo scopo: che è quello di consentire al giudice – che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone – di ammettere le prove che gli consentono un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire.
E se proprio non si vogliono scomodare i grandi principi (segnatamente quello che vorrebbe il processo finalizzato all’accertamento della verità, posto che quella processuale non può che essere una verità “debole, relativa perché umana”), si può comunque affermare ragionevolmente che la norma mira esclusivamente a salvaguardare la completezza dell’accertamento probatorio sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti.
Di tanto si ha piena e puntuale conferma se solo si ha riguardo a quello che è il compito del Giudice in riferimento a quella che viene definita regiudicanda, ossia il fatto da giudicare che costituisce oggetto del processo.
a) Il Giudice, in primo luogo, ha il compito di accertare se l’imputato ha commesso – o meno – il fatto di cui viene accusato;
b) in secondo luogo interpreta la fattispecie incriminatrice, così da accertare qual è il “fatto tipico” punibile;
c) infine verifica se il fatto storico, quale accertato nel processo, si possa incasellare nella fattispecie, sia “conforme” alla fattispecie incriminatrice.
Per questo la decisione è stata definita come un sillogismo, in cui il fatto storico, ricostruito nel processo, costituisce la premessa minore, la norma incriminatrice è la premessa maggiore e la conclusione consiste, appunto, nel valutare se il fatto storico rientri nella norma in parola.
Se così è, allora risultano evidenti le ragioni giustificatrici di una disposizione come l’art. 507 c.p.p. e va sgombrato il campo anche da un’altra asserzione, ossia che agendo, intervenendo nel processo ai sensi dell’art. 507 c.p.p e, dunque, integrando il compendio probatorio, il Giudice perda il suo requisito di “terzietà”.
Anche qui – io credo – c’è (non so quanto consapevole) un rimando ideale al vecchio Giudice istruttore, accompagnato dal timore che anche il Giudice del dibattimento sia (appunto come il G.I.) non del tutto terzo. Ma è un timore infondato, smentito dalla esperienza di tutti i giorni ed anche da alcune statistiche che mi è capitato di consultare in questi giorni.
Mi chiedo, infatti: perché mai dovrebbe essere considerato non “terzo” (rispetto alle parti) un giudice scrupoloso che intende colmare, in caso di assoluta necessità, delle lacune istruttorie e giudicare a ragion veduta? Per quale motivo la ravvisata necessità di una ulteriore conoscenza per una più precisa e puntuale ricostruzione della premessa minore del ricordato sillogismo indurrebbe a ritenere il giudice meno terzo e meno imparziale? Non dovrebbe, invece, essere il contrario, a tutto concedere?
In questa accusa, proveniente soprattutto dal mondo forense, c’è qualcosa di taciuto, di non detto, una sorta di riserva mentale: ossia che l’applicazione del disposto di cui all’art. 507 c.p.p. giovi alla pubblica accusa e nuoccia, invece, alla difesa e provochi, pertanto, l’alterazione del principio della parità delle parti nel processo.
Ciò non è vero, o non è del tutto vero.
Se, infatti, soprattutto nei primi anni di entrata in vigore del codice e nei processi con rito monocratico, è capitato che alcuni Pubblici Ministeri abbiano omesso di depositare la lista testi, costringendo il giudice del dibattimento a ricorrere all’art. 507 c.p.p., con soluzione pratiche che, in taluni casi si sono rivelate piuttosto contorte, non è men vero che oggi non è più così e che, forse, è statisticamente più significativa la percentuale di difensori negligenti che non utilizzano tutti gli strumenti a loro disposizione per un’efficace difesa dei loro assistiti; per cui l’art. 507 finisce col rivestire anche la funzione di evitare che si pervenga a condanne ingiuste.
Si è pure sostenuto che la costituzionalizzazione del c.d. “giusto processo”, seguita alla modifica normativa dell’art. 111 della Costituzione, potrebbe aver alterato il sistema, dal momento che tale riforma, “pensata e messa a punto … come risposta di segno contrario alla giurisprudenza costituzionale che dal 1992 aveva progressivamente demolito i pilastri del sistema accusatorio sul terreno delle prove” , avrebbe riportato il nostro processo penale sugli originari binari del “fair trial”, tenuto anche conto del disposto dell’art. 6 C.E.D.U., il quale garantisce il diritto ad un “fair ed public trial” ossia, tradotto nella nostra lingua, il diritto ad un giusto processo.
Ora, senza voler banalizzare il contenuto della riforma costituzionale (anche se non è mancato chi, come Ferrua, ha ritenuto che l’aggettivo “giusto” aggiungerebbe poco al concetto di processo, per la semplice ragione che “ogni modello di processo è, per chi lo adotta, immancabilmente giusto” , essendo impensabile che vi sia un legislatore che adotti consapevolmente un modello di processo… ingiusto), mi pare che l’art. 507 c.p.p., proprio per le sue caratteristiche (come innanzi delineate), non si ponga in contrasto col nuovo testo dell’art. 111 Cost., non incidendo in alcun modo sui principi di imparzialità e terzietà del giudice, sul principio del contraddittorio, sul diritto alla prova o sulla ragionevole durata del processo.
Al contrario, una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice, in un sistema caratterizzato del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero, rischierebbe, invece, di vanificare tale principio, proprio a causa della mancanza nel Giudice del potere di intervenire per colmare eventuali lacune di ordine istruttorio.
Inoltre, ipotizzate limitazioni al potere del Giudice ex art. 507 c.p.p. si porrebbero in contrasto col potere del Giudice d’appello di disporre d’ufficio (art. 603, comma 3° c.p.p.) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale anche nel caso di prove che, benché conosciute, non erano state assunte, sicché tutto il “sistema” del processo ne verrebbe alterato.
Probabilmente, i detrattori e i critici di tale disposizione avrebbero ragione di lamentarsi ove il potere di integrazione istruttoria fosse del tutto libero; ma così non è, dal momento che come recita l’art. 507 c.p.p. (e con esso l’art. 603), l’iniziativa del giudice deve essere “assolutamente necessaria” ai fini del decidere e che le parti, a seguito dell’iniziativa del giudice, mantengono la possibilità di chiedere ulteriori e nuovi mezzi di prova.
D’altro canto, se effettivamente la disposizione in parola fosse risultata lesiva di diritti costituzionalmente garantiti, non solo nella nostra Carta fondamentale, ma anche nella Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (che, ormai, affianca sostanzialmente al medesimo livello la Costituzione), la Corte E.D.U. non avrebbe mancato di rilevarlo, essendosi in questi anni molte volte pronunciata sulla violazione dell’art. 6 della Convenzione . Il non averlo fatto costituisce ulteriore riprova della costituzionalità della norma.
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2 – L’art. 506 c.p.p.
Va da sé, peraltro, che l’iniziativa istruttoria officiosa del Giudice non vale ad alterare il rapporto fra le parti ed il Giudice in riferimento alla prova, nel senso che quello del Giudice resta pur sempre un potere dal carattere sussidiario e suppletivo, laddove, invece, titolari del diritto alla prova restano le parti.
È, dunque, solo nella dimensione epistemologica che va visto il potere dell’organo giudicante, assolvendo esso ad una funzione che può definirsi “euristica”, che trova ulteriore e precisa conferma nel disposto di cui all’art. 506, comma 1°, del c.p.p. Il quale consente – com’è noto – al Presidente del Collegio o al Giudice monocratico di formulare nuovi e più ampi temi di prova, utili per la completezza dell’esame.
In questo caso il Giudice non si sostituirà alle parti, ma si limiterà ad indicare l’ambito su cui dovrà esplicarsi l’ampliamento della prova, posto che titolari del relativo diritto restano le parti mentre al Giudice spetta solo un ruolo di controllo e di sussidiarietà.
Il Giudice deve avere come riferimento oggettivo le circostanze indicate nella lista ex art. 468 c.p.p. e sviluppare quelle potenzialità della fonte di prova che sono rimaste in ombra, anche in relazione al concreto svolgimento che ha avuto l’esame testimoniale. A seguito dell’invito di cui si tratta la parte cui è rivolto potrà o fare le domande che riterrà opportune o rifiutare anche immotivatamente di fare domande sui temi indicati dal giudice. Ovviamente, ove le domande vengano effettivamente poste, di seguito, su quello che è stato l’ampliamento della prova, potranno porre domande le altre parti secondo l’ordine stabilito dall’art. 498 1 e 2 e 503 c. 2 c.p.p.
Devo dire, per quella che è la mia esperienza, che tale disposizione non mi pare abbia incontrato molta fortuna, nel senso che Presidenti di Collegio e Giudici monocratici, di solito, preferiscono “tagliar corto” e fare applicazione del 2° comma dell’art. 506 c.p.p.
Può accadere, infatti, che il thema probandum non risulti sufficientemente illustrato: in questo caso, il Presidente o il Giudice potrà far ricorso – come dicevo – al disposto di cui al 2° comma dell’art. 506 c.p.p. e porre direttamente (o su indicazione di altro membro del collegio) domande a testimoni, periti, consulenti tecnici, parti nonché alle persone indicate dall’art. 210.
E’ da notare che i poteri indicati all’art. 506 spettano al Presidente in quanto tale e non al collegio che, in ordine al loro esercizio, non deve necessariamente essere interpellato. Ad ogni componente del collegio spetta, invece, un mero potere di stimolo nei confronti del Presidente, stimolo che, tuttavia, potrà essere respinto anche senza alcun provvedimento formale né alcuna motivazione, in armonia con i caratteri di immediatezza, concentrazione, continuità ed unità dell’esame.
Quanto all’oggetto delle domande, in dottrina si è affermato che l’area delle circostanze non può sconfinare da quelle indicate nella lista testimoniale ai sensi dell’art. 468. Secondo un’interpretazione più ampia, invece, a differenza della previsione del co. 1, l’ambito delle domande coincide con l’area delle domande oggetto dell’esame delle parti, che ricomprende sia i fatti oggetto di prova, sia le circostanze idonee a saggiare l’attendibilità del teste.
In relazione al momento in cui il presidente può rivolgere domande all’esaminato, la nuova formulazione del comma 2° (introdotta dalla c.d. Legge Carotti) prevede espressamente che ciò può avvenire “solo dopo l’esame e il controesame”. La modifica si è resa necessaria per porre un freno alla prassi “interventista” di alcuni presidenti, che, nonostante la lettera di tale comma nella precedente formulazione (“terminato l’esame”), inopportunamente interrompevano l’esame condotto dalle parti. Non mi pare, anche qui, che la modifica abbia avuto grande successo.
Infatti, ad onta del nuovo dettato legislativo, l’abitudine di alcuni giudicanti (fra i quali, molto onestamente, mi annovero, sia pure con moderazione) di porre domande senza attendere la fine dell’esame (globalmente inteso) del teste permane tuttora, anche se a loro (e mia) scusante va detto che spesso le domande vengono poste a chiarimento di un concetto che il teste non ha chiaramente esplicitato, ovvero anche per consentire alle parti la immediata contro-replica, così evitando di perpetuare l’esame oltre il dovuto. Del resto, vi è una disposizione, l’art. 499 ultimo comma, che consente al Presidente e al Giudice di intervenire “per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni” ed è, dunque, in riferimento a tale “obbligo” che si spiega l’intervento del Presidente o del Giudice, tanto più che, in taluni casi, esso finisce col tradursi in vere e proprie domande a chiarimento per riportare l’esame sui binari della lealtà e correttezza processuale, dai quali, talvolta, deraglia.
In ogni caso, l’eventuale violazione da parte del Giudice di questa regola (di porre, cioè, domande prima della fine dell’esame), secondo consolidata giurisprudenza della Cassazione, non comporta inutilizzabilità della prova, ma, a tutto concedere, ove il Presidente abbia impedito alla parte di concludere l’esame, può integrare solo una nullità a regime intermedio, che si intenderà sanata se non dedotta immediatamente dopo il suo verificarsi (Cass. 20.5.08, n. 27068: “L’eventuale intervento del giudice prima della conclusione dell’esame e controesame, non configura un’ipotesi di inutilizzabilità della testimonianza, perchè questa, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., si verifica, come già precisato, solo quando viene assunta in presenza di un divieto e non quando l’assunzione, pur consentita, sia stata effettuata in violazione della regole previste per l’esame o il controesame In tale ultima ipotesi può trovare applicazione soltanto ed eventualmente il diverso istituto delle nullità allorchè si verifichi la lesione di un diritto delle parti. Trattandosi però di una nullità diversa da quelle assolute ed insanabili, peraltro posta in essere alla presenza delle parti nel corso del giudizio, a norma dell’art. 181 c.p.p., comma 4 e art. 182 c.p.p., comma 2, avrebbe dovuto essere eccepita davanti al collegio subito dopo il dedotto abusivo intervento da parte del presidente.”).
Un ulteriore e delicato problema è quello dei rapporti fra art. 506 e 499 c.p.p.: ossia se possa, il Presidente o il Giudice, porre al teste domande suggestive (è pacifico che, come già alle parti, gli sia precluso di porre domande “nocive”, che ledano il rispetto e l’integrità della persona).
Secondo un’interpretazione, minoritaria, una tale possibilità sarebbe preclusa all’organo giurisdizionale, per evitare rapporti conflittuali con il teste e per salvaguardare la terzietà del giudice. Secondo altra interpretazione, recepita in giurisprudenza, pur ammettendosi che il giudice debba dimostrare una rigorosa imparzialità nel formulare le domande, tuttavia, come avviene negli ordinamenti del common law, non vi sarebbero ostacoli perché egli possa porre tutte le domande ammesse durante la cross examination, quindi anche quelle suggestive (si consideri che l’art. 499, comma 3°, c.p.p. pone tale divieto solo per la parte che ha chiesto l’esame o che ha un interesse comune: dunque il Giudice non è menzionato). In terminis Cass. 4.7.2008 n. 27068, cit. , secondo cui “Nel corso dell’esame testimoniale, il divieto di porre domande suggestive non opera con riguardo al giudice, il quale può rivolgere al testimone qualsiasi domanda, con esclusione di quelle nocive, ritenuta utile a fornire un contributo per l’accertamento della verità (Cass. 4.7.2008 n. 27068).
Secondo la dottrina, infatti, posto che “il controesame assolve alla funzione di verificare l’attendibilità del teste al fine di garantire la genuinità della prova (..) sarebbe assimetrico riconoscere solo alla parte controinteressata il potere di porre domande suggestive e non anche al presidente del collegio”.
Il problema si pone, invece, in termini differenti quando ad essere esaminato è un minore. Qui, come è noto, l’esame è condotto direttamente dal Presidente (art. 498, comma 4°, c.p.p.) “su domande e contestazioni proposte dalle parti”. Quid iuris quando il Presidente o il Giudice (in caso di incidente probatorio) ponga domande suggestive?
Una recente sentenza della Corte d’Appello di Trieste, pur avendo rilevato l’errore metodologico in cui era incorso il GIP di Udine (che aveva posto al minorenne “inappropriate domande suggestive”), aveva statuito che tale condotta non desse luogo a nullità, perché non prevista dalla legge, né ad inutilizzabilità, non trattandosi di prova assunta in difformità dalle norme codicistiche.
La Corte di Cassazione , investita del caso, pur ritenendo che le conclusioni della Corte territoriale fossero in sintonia con un consolidato indirizzo nomofilattico, ha dato delle norme (artt. 498 e 499 c.p.p.) una lettura differente e, sotto certi aspetti, innovativa.
In particolare, dopo aver richiamando la giurisprudenza in materia di domande suggestive ex art. 499 c.p.p., la Cassazione evidenzia come l’esame da parte del Presidente del minore ex art. 498, comma 4°, sia cosa diversa dalle domande che il Presidente ponga ex art. 506 al teste maggiorenne, perché nell’esame del minore “non è ammesso l’ordinario incrocio tra accusa e difesa e non è previsto un controesame”, dal momento che il Presidente cumula in sé le funzioni tanto di chi abbia chiesto l’esame quanto di chi sia abilitato al controesame. Conseguentemente – statuisce la S. C. – la violazione del divieto di porre domande suggestive, se non dà luogo alla globale inutilizzabilità della testimonianza (non trattandosi di prova vietata per la sua intrinseca illegittimità: Cass. SS. UU. 27.5.96, sala), tuttavia deve essere attentamente vagliata dal Giudice sotto il profilo della “attendibilità della prova”, onde il tema del divieto di porre domande suggestive al teste minorenne “si collega indissolubilmente alla esigenza di avere una testimonianza affidabile”.
In altri termini – dice la Corte – la prova è utilizzabile, perché non vi sono specifiche violazione di disposizioni del codice, ma il Giudice, nel momento della decisione, deve porsi il problema della attendibilità delle risposte date dal minore a domande suggestive e deve, pertanto, verificare se quella testimonianza sia affidabile (o non necessiti, per esempio, di specifici riscontro individualizzanti).
Una soluzione, questa della Suprema Corte, che mi sento di condividere e che, probabilmente, indurrà i Giudici che attenderanno all’esame di testi minori ad una maggiore prudenza nella formulazione delle domande.
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3 – L’art. 495 c.p.p.
Solo poche battute, invece, sull’art. 495 c.p.p. e, in particolare, sul potere del Giudice, ai sensi del 4° comma, di “revocare prove già ammesse”, in quanto ritenute superflue.
È nota la giurisprudenza della Suprema Corte sul punto: il diritto dell’imputato alle prove a discarico, a mente del 2° comma di tale disposizione, “va coordinato con il potere attribuito al Giudice dal comma 4° di revocare prove che risultino superflue” (Cass. 5.5.10, n. 18654). Un potere, quello del Giudice, esercitato sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale e che è ben più ampio di quello che al Giudice è riconosciuto all’inizio del dibattimento, allorquando egli versa in una fase di “verginità conoscitiva”, che è regolata dal disposto di cui all’art. 190, comma 1°c.p.p. (per cui il giudice può non ammettere solo le prove che risultino vietate dalla legge o manifestamente superflue ed irrilevanti).
Un potere, quello di cui al 4° comma dell’art. 495, che va esercitato “sentite le parti” (le quali hanno dunque diritto di interloquire sul punto), derivandone, in caso contrario la nullità del provvedimento di revoca, nullità, tuttavia, che “è sanata se non dedotta immediatamente” (Cass. 12.2.09, Bisiol). Peraltro, secondo la Cassazione, non sussiste neppure la violazione del dovere di sentire le parti, “qualora il Giudice ritenga non più necessario acquisire la prova ammessa e non ancora espletata” se le parti, invitate a rassegnare le conclusioni, “nulla eccepiscano in ordine alla completezza dell’istruttoria, in quanto tale invito non è altro che una modalità scelta dal giudice per sentire le parti in ordine all’andamento e allo sviluppo dell’istruttoria dibattimentale” (Cass. 27.5.08, Ricci).
Ne viene, dunque, che tutto deve risolversi nel momento stesso in cui il Giudice adotta un provvedimento di revoca di testi già ammessi, ai sensi dell’art. 495 comma 4°, c.p.p.
È ovvio che tale problematica si correla con l’altra, della ragionevole durata del processo (principio oggi inserito in Costituzione) e con quello che da taluno è stato definito “abuso del processo”. Non è il caso che io mi soffermi su tattiche dilatorie finalizzate all’ottenimento della prescrizione: esiste una vasta letteratura in merito.
Del resto molti ricorderanno anche la polemica di natura politica insorta a seguito di improvvidi disegni di legge che, da un lato, intendevano introdurre una prescrizione di tipo “processuale” (il processo si estingue col decorso di draconiani periodi di tempo e, comunque, di regola entro il termine massimo di sei anni) e, dall’altra, intendevano elidere il 4° comma dell’art. 495 e l’art. 238-bis sull’efficacia di sentenza passate in giudicato: il varo di norme di questo tipo, tese smaccatamente a favorire un noto imputato eccellente, anzi eccellentissimo, avrebbero probabilmente significato la morte della giustizia penale, almeno di quella che si occupa dei delitti più gravi e di più difficile accertamento.
Peraltro – io credo – norme di tal fatta sarebbero risultate in più parti incostituzionali (per violazione del principio di ragionevolezza, dell’art. 24 Cost. ecc.).
Resta, comunque, la delicatezza del bilanciamento fra la necessità che il processo si svolga in tempi ragionevoli – da un lato – e l’esigenza che non risulti violato il diritto di difesa o altre garanzie processuali: problema non facile da risolvere, soprattutto quando il processo risulti caratterizzato da un rapporto conflittuale fra le parti e fra esse ed il Giudice.
Il ricorso ad istituti di matrice negoziale, che porti alla acquisizione di atti o verbali di prova per i quali non si reputi necessario l’esame del dichiarante, potrebbe essere una soluzione per un processo da celebrarsi i tempi ragionevoli, ma anche il ricorso alla “negoziabilità” presuppone necessariamente un clima collaborativo (fermo il contraddittorio delle parti), clima che difficilmente può sussistere quando altri sono gli interessi delle parti, per esempio quello di tirarla per le lunghe per conseguire la prescrizione (si pensi al recente caso del processo Mills).
È evidente, allora, di fronte a tattiche difensive dilatorie, che finiscono con l’integrare una difesa “dal” processo e non “nel” processo, che il Giudice, proprio per stroncare (nei limiti del possibile e del ragionevole) siffatte iniziative, debba fare applicazione dell’art. 495, comma 4°, c.p.p.
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5 – Il giudice e la “nuova” prova scientifica
Mirijan Damaska, docente di diritto comparato a Yale, sostiene che guardare al futuro del processo penale oggi “significa soprattutto parlare della progressiva adozione di modelli scientifici nell’indagine sui fatti”, perché “un numero sempre più elevato di fatti rilevanti per il processo [può essere risolto] soltanto con strumenti tecnici sofisticati”.
Questa frase, pronunciata in riferimento alla realtà statunitense, ci induce a qualche riflessione anche in riferimento alla situazione italiana, dal momento che anche da noi si assiste ad una sempre più invasiva presenza, nelle indagini e, dunque, nel processo, della prova scientifica. Spettrografie, stilometrie, DNA test, Luminol ed altre diavolerie del genere, veicolate nell’opinione pubblica anche da serial di successo, da qualche tempo hanno assunto una rilevanza sempre maggiore e con essi ci troviamo a confrontarci nelle aule di giustizia.
Lungi da me l’idea di affrontare approfonditamente la materia: non ce ne andremmo più.
Intendo, tuttavia, fare un breve accenno a quella che viene definita “nuova prova scientifica” (per distinguerla da quella tradizionale e consolidata), con essa intendendosi quegli strumenti tecnico-scientifici di elevata specializzazione che si presentino, appunto, come “nuovi” (in ambito giudiziario, se non scientifico) oppure come ancora “controversi” quanto alla loro attendibilità ed affidabilità.
Recentemente ho partecipato ad un interessantissimo convegno, organizzato sempre dall’attivissimo prof. Adorno, sul tema delle “neuroscienze” e sulla loro rilevanza nel processo penale.
Fra le tante cose, condivisibili e non condivisibili, che ho sentito nel corso di tale convegno ce n’è stata una che mi ha particolarmente incuriosito, perché correlata a due provvedimenti giurisdizionali, uno della Corte d’Assise d’Appello di Trieste del settembre 2009 e l’altro, se non sbaglio, del GIP del Tribunale di Como del 2011.
Nel primo caso la Corte d’Assise d’Appello di Trieste ha definito un processo per omicidio giudicando l’imputato, un algerino, parzialmente infermo di mente. E fini qui tutto normale, ma la particolarità è nel fatto che, dirimendo un contrasto fra Consulenti di parte, la Corte ha attribuito particolare rilievo ai risultati di taluni test volti alla ricerca di “polimorfismi genetici significativi”, i quali hanno (o avrebbero) evidenziato la presenza nel patrimonio cromosomico dell’imputato di determinati geni che, secondo recentissimi studi riportati in letteratura, renderebbero il soggetto “particolarmente reattivo in termini di aggressività e, conseguentemente, vulnerabile, in presenza di situazioni di stress”.
Il mio pensiero è volato subito a Cesare Lombroso e alla sua teoria dell’uomo delinquente, perché, forse, se sono vere le valutazioni scientifiche in parola, quelle dello scienziato piemontese potrebbero oggi essere in parte rivalutate.
Nel secondo caso, il Giudice, a fronte del canonico contrasto fra Consulenze di parte, ha riconosciuto l’infermità mentale di un’imputata, accusata se non erro di omicidio, grazie ad una produzione difensiva – una risonanza magnetica dell’encefalo – che ha evidenziato (attraverso delle neuro immagini) un’anomalia morfologica in quella particolare area del cervello (i lobi frontali) cui è sostanzialmente riconosciuta la funzione di discriminare il “bene” dal “male” ed in cui si ritiene abbiano sede il senso critico ed il senso morale (con tanti saluti ad anni ed anni di speculazione filosofica e religiosa sul bene e sul male).
Tale produzione, associata ad una indagine genetica, che avrebbe evidenziato la presenza di alcuni “alleli” i quali determinerebbero un rischio più elevato di un comportamento violento, ha convinto il Giudice della presenza del vizio di mente.
Ciò posto, la domanda è: rispetto a questi nuovi strumenti tecnico-scientifici come ci si pone?
I Giudici di Trieste e Como – lo abbiamo visto – li hanno presi in considerazione ed utilizzati per le loro decisioni. Ma ciò è sufficiente per trarne della indicazioni operative a più vasto raggio?
Non a caso, prima, ho citato Lombroso, perché anche lo scienziato torinese, padre della moderna criminologia, nel momento in cui propugnò la teoria dell’uomo delinquente, dandole ovviamente veste scientifica, venne visto come un precursore, salvo successivamente, di lì a qualche anno, essere bollato come teorico di una dottrina priva di qualsivoglia scientificità (tanto che – si disse – se si fossero applicati a lui i parametri che egli utilizzava per le sue analisi, anch’egli sarebbe rientrato nel normotipo dell’uomo delinquente).
Il problema, dunque, è di una delicatezza estrema.
Negli USA – e non solo, per la verità – il criterio di riferimento, in questi casi, è quello della nota Sentenza Daubert del 1993, nella quale la Corte Suprema fa affermato il principio che “in presenza di una prova scientifica nuova, il Giudice non può limitarsi a constatare passivamente l’esistenza o inesistenza di una sua generale accettazione nella comunità scientifica di riferimento, ma deve valutare criticamente l’affidabilità dei metodi e delle procedure adottate dall’esperto”. E ciò alla stregua di criteri che le medesima sentenza indica, sia pure a titolo meramente esemplificativo: grado di falsificabilità del metodo scientifico, esistenza di eventuali revisioni critiche da parte di esperti del settore, indicazione di margine di errore conosciuti, rilevanza diretta rispetto ai fatti di causa, ecc.
Come dire: bisogna andare con i piedi di piombo!
E in Italia? Io ritengo che anche in Italia i principi e i criteri della sentenza Daubert possano – anzi debbano – essere utilizzati dal Giudice.
Ma il primo problema che si pone è: nel nostro sistema processuale come entra nel processo una “prova scientifica nuova” (nel senso specificato)?
Nel caso del GIP di Como il canale di ingresso non è stato quello dell’art. 190 c.p.p., ma quello dell’art. 189, relativo alle prove atipiche. In sostanza il giudice ha verificato che non vi fosse violazione della libertà morale e ha valutato sussistente l’idoneità probatoria dello strumento neuro scientifico (attraverso la pratica della c.d. “neuroimaging”) per l’accertamento dei fatti, “trattandosi di metodi che, per effetto del progresso scientifico hanno ottenuto unanime riconoscimento internazionale” e, nel contraddittorio delle parti, ha disposto che le modalità di assunzione fossero quelle della Consulenza tecnica.
Non entro nel merito, anche scientifico, della decisione. Non ne avrei il titolo e poi il discorso ci porterebbe lontano.
Rilevo – e con questo chiudo – che tale opzione ha trovato la ferma critica di alcuni studiosi, fra cui Giulio Ubertis , il quale ha rilevato:
a) che la tesi dell’applicabilità dell’art. 189 c.p.p. si fonda su una “interpretazione analogica della disposizione in parola”, che risulterebbe sostanzialmente immotivata alla luce del principio di legalità processuale, rinvenibile nel novellato art. 111 Cost. e nei principi generali della C.E.D.U.;
b) che, così facendo, si affida al giudice il compito di formulare “un giudizio di pre-valutazione dell’attendibilità o dell’efficacia della prova” che finirebbe col vulnerare i “requisiti di imparzialità, terzietà e, in particolare, neutralità metodologica” che gli sono propri.
Tenuto conto dello stretto legame che esiste fra momento dell’ammissione della prova e valutazione della stessa ai sensi dell’art. 192 c.p.p., non può prescindersi – conclude Ubertis – da un giudizio di idoneità probatoria (non potendosi, per esempio, ammettere verifiche probatorie aventi un oggetto verosimile e pertinente ma “ispirate a pratiche di per sé irrilevanti per inidoneità epistemologica”, tipo l’oracolarità, la rabdomanzia, lo spiritismo e, anche sotto altre profilo, quella della tutela della libertà morale, l’ipnosi), sicchè resterebbe necessariamente affidata al Giudice se non una pre-valutazione, una valutazione anticipata in ordine alla forza persuasiva della prova, quanto meno una stima circa la capacità dello strumento impiegato a conseguire une esito concretamente fruibile, non sempre facilmente conciliabile con la neutralità metodologica che si richiede ad un organo giurisdizionale.
In altri termini – e concludo davvero – il rischio che si corre rispetto alla c.d. “prova scientifica nuova” è, da un lato, che si intacchi l’immagine di neutralità e terzietà proprie del Giudice e, dall’altro, che finisca con l’entrare nel processo quella che viene definita “scienza spazzatura”, epistemologicamente irrilevante se non dannosa; onde opportuna sarebbe, forse, da parte del Giudice, nella fase dell’ammissione della “prova scientifica nuova”, una ulteriore verifica tecnica, sussidiaria, circa la controllabilità e giustificabilità dei procedimenti scientifici in essa implicati (magari facendo ricorso ai criteri indicati nella sentenza Daubert), fermo restando che il giudizio sulla sua persuasività rimane in ogni caso affidato alla fase della decisione.
Grazie.
Dott. Roberto Tanisi
(Presidente II sez.pen. Tribunale Lecce)
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